lunedì 22 giugno 2009

L'inutilità del gioco

A che serve giocare?

La domanda viene posta con regolarità ad un giocatore abituale e, bisogna ammetterlo, talvolta attraversa anche la sua mente. Perchè dedicare una parte rilevante della sua vita, di quel poco libero che la vita di oggi ci concede (soprattutto a chi deve conciliare l'attività ludica con gli impegni dello studio, del lavoro o magari della famiglia!), di quelle scarse energie residue che si hanno alla fine di una giornata a mettere insieme eserciti, studiare regolamenti o più semplicemente aprire una scatola e trascorrere una serata a tirare dadi e a muovere segnalini su di una mappa?

Il gioco non è forse un'attività inutile per definizione? Non produce nulla di reale perchè parte da presupposti non reali, non è un bisogno naturale sostanzialmente insopprimibile come il nutrimento o la respirazione, è un'attività puramente intellettuale i cui effetti nascono e periscono nell'arco di una partita e nello spazio delimitato dal tavolo da gioco. E dunque, a cosa serve giocare? Cosa ci dà di così prezioso che lo rende, per alcuni di noi, un'attività importante della propria esistenza alla quale è giusto accostarsi con tanta dedizione?

Si potrebbe risolvere il tutto nell'ambito della socialità. L'uomo è animale sociale, non può vivere senza gli altri e il gioco è una forma di socializzazione. Sì, però questa risposta non ci basta. Esistono altre forme di rapporto interpersonale che esulano dal gioco intelligente, altre passioni che possono unificare le persone, altre attività che ci possono far trovare fianco a fianco con altri individui.

A meno che non si ritenga che qualsiasi forma di socializzazione è, in fondo, un gioco. Ha delle sue regole, crea una ricchezza intellettuale che esula dai bisogni materiali, forma legami che valgono solo per le persone coinvolte in quella stessa attività interpersonale, vede tutti “competere” più o meno alla pari con altre persone al fine di ottenere una posizione di prestigio e di evidenza nell'ambito di una comunità. Anche nella socializzazione ci sono vincitori e sconfitti, nonché numerosi “pareggi” (compromessi, rinunce reciproche per trovare un'intesa, comprensione dei propri limiti e di quelli altrui).

Forse questa asserzione assomiglia a quella filosofica notte in cui tutte le vacche sono nere. E allora, per sfuggire all'insidiosa trappola, possiamo dire che il gioco formalizzato e riconosciuto da tutti come tale altro non è che una forma di socializzazione in cui le regole generali del convivere vengono codificate con precisione, in cui i rapporti interpersonali divengono rapporti di forza sul tavolo da gioco, in cui gli esiti finali sono (nella maggior parte dei casi) chiari e indubitabili. Forse il gioco in senso stretto è una socializzazione che si è tolta la maschera e nella quale, una volta tanto, ci si muove a viso aperto e con delle regole chiaramente esplicitate.

Il gioco quindi unisce, determina coesione (o anche rancori e odi duraturi...), crea. Perchè se è vero che nell'universo nulla si crea dal nulla, è anche vero che la mente umana ha il grande potere di creare dall'immateriale, di produrre concetti e sensazioni laddove prima vi era solo il deserto dell'intelletto. Il gioco narra una storia, regala emozioni, stimola innovazioni. In questo senso il buon Huizinga riteneva che tutta la cultura fosse essa stessa un'attività ludica, apparentemente inutile ma fondamentale e determinata da regole estremamente precise, ed è difficile dargli torto.

Se è proprio così, se il gioco è cultura e la cultura è gioco, potremmo trovarci di fronte al paradosso che l'attività apparentemente più inutile della nostra esistenza è invece l'applicazione più importante alla quale possiamo rivolgere il nostro intelletto.

Nessun commento:

Posta un commento

LinkWithin

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...