No, non ho fatto le ore piccole in compagnia di Marzullo e delle sue domande esistenziali (da questo punto di vista, sono più un tipo da Gabriele La Porta... sag-gez-za...). E' solo che proprio ieri, passando assieme a mio padre qualche ora in macchina di ritorno verso Roma, il discorso è caduto sull'identificazione del concetto stesso di gioco.
Quando un gioco si può dire tale? Quando cioè un'attività umana assume la connotazione ludica e, per converso, quando un'attività umana classificata convenzionalmente come gioco non è più tale?
Complice la mia attuale lettura de "I giochi degli uomini" di Roger Caillois (edito da Bompiani), ho subito usato come pietra di paragone i giochi d'azzardo. L'antropologo francese individua quattro elementi essenziali per la definizione di "gioco" (la competizione, il caso, la maschera e la vertigine) e applica tale classificazione a molti tipi di giochi, primi tra tutti proprio quelli in cui il calcolo dei rischi si accompagna alla possibilità di un tornaconto economico personale.
Io, tuttavia, non sono del tutto d'accordo. Da questo punto di vista sono un huizinghiano convinto, un assertore cioè dell'estensione della connotazione ludica ad attività apparentemente "serie" come cultura o cerimonialità religiose nelle quali i quattro elementi di Caillois non si ravvisano o ricoprono ruoli minori, e soprattutto sostengo con forza la necessità di un "quinto elemento" ludico: la gratuità. Per Huizinga il gioco è essenzialmente attività gratuita, avulsa da scopi materiali immediati e con un fine interno a sè stesso; si gioca, cioè, per giocare, per il godimento che ci dà il gioco stesso e per il mantenimento della realtà ludica che noi stessi abbiamo creato. Inserendo tale elemento nella nostra equazione possiamo estendere - a mio parere, giustamente - il concetto di attività ludica a molti elementi della nostra vita e ravvisare proprio nel gioco la radice storica prima del nostro progresso culturale, così apparentemente "inutile" ma anche così fondamentale per la nostra esistenza.
Ma, per scendere dalle nuvole, possiamo allora dire con certezza che i giochi in cui la posta finale ha un valore materiale non sono più veri giochi? Il mercante in fiera o la tombola del Natale grazie al quale il nipotino vince al nonno una decina di euro, il torneo di giochi di carte collezionabili che dà in premio al vincitore dieci nuovi mazzi di carte, la serata al bowling con gli amici nella quale il perdente dovrà pagare da bere a tutta la comitiva non sono forse dei giochi?
Facciamo un po' di ordine. La connotazione di "gratuità" del gioco ci porta ad asserire che il gioco è un'attività a fine interno: il suo scopo è giocare, non creare qualcosa di materialmente utile o garantirsi una posizione di vantaggio. Il "profitto" che se ne ricava deve essere essenzialmente riconducibile al gioco stesso, deve essere una gratificazione commisurata alle energie spese per partecipare all'attività ludica in questione. Si viene insomma a creare un livello adeguato di profitto dal gioco, che si può anche tradurre in un corrispettivo ma dal valore prettamente simbolico (i dieci euro vinti dal nipotino a tombola, il diritto di vantarsi con gli amici perchè si sono vinte tre battaglie a Warhammer di fila, un boardgame del valore di una cinquantina di euro a fronte di un torneo durato due giorni) e non un profitto economico la cui consistenza va al di là del singolo momento ludico o delle normali relazioni interpersonali che ho con gli altri giocatori (il piatto da duemila euro di una partita di poker "pesante", il prestigio politico di aver dimostrato il proprio valore bellico alla fine di un torneo cavalleresco, giochi e miniature per il controvalore di un migliaio di euro).
La definizione essenziale può essere: "Quando il premio di un'attività ludica consiste in un vantaggio materiale sproporzionato rispetto agli sforzi spesi per la partecipazione a detta attività, o quando esso rappresenta un vantaggio che esula dai rapporti interpersonali convenzionali che legano i partecipanti tra loro, non si può parlare più di gioco ma di profitto".
Chi, come me, ha una formazione giuridica troverà in questa definizione echi del concetto civilistico di "ingiustificato arricchimento", non a caso sanzionato dal codice perchè estraneo al normale "gioco" dei rapporti economici e sociali.
Certo non è semplice, nel mondo del gioco come in quello del diritto (straordinariamente affini, mi suggerisce il buon Huizinga), capire quando un arricchimento è ingiustificato e sproporzionato rispetto alle attività compiute da un soggetto. Applicando però tale norma con un po' di elasticità e di intuito interpretativo, ci accorgiamo che gli stessi giochi d'azzardo cessano di essere giochi quando la posta diviene "troppo alta" (un limite percepito da tutti, e il discrimine che trasforma un giocatore da "appassionato" a "professionista") ma che sono perfettamente ascrivibili al mondo ludico quando si tratta di un semplice passatempo nel quale non si rischia di perdere la camicia, o peggio...
A cosa ci serve tutto questo? Non certo a criticare a priori attività che si fanno passare per giochi ma che in realtà non lo sono (per quanto mi dia veramente fastidio che scommesse, videopoker, lotterie, casinò e affini vengano comunemente definiti "giochi"), quanto a capire quando chi ci sta intorno inizia a fare sul serio e - nel caso - quando è giunto il momento di alzarsi dal tavolo e dedicarsi ad attività realmente ludiche e soprattutto meno rischiose.